Marx può aspettare

Marx

Il 16 dicembre 2016 tutta la famiglia Bellocchio si riunisce per un pranzo di festeggiamento. I fratelli ancora vivi, Letizia, Pier Giorgio, Maria Luisa, Alberto, insieme alle mogli, i figli, i nipoti… L’idea di Marco è di partire da lì per ritornare ancora una volta riesplorare la trama e il gorgo familiari, ciò che da sempre nutre le sue immagini. Ma qual è il punto focale di tutto, l’asse di questo riattraversamento? Da una vecchia foto, l’obiettivo si stringe fino a inquadrare il volto della madre. Ma è solo un falso fuoco, una prospettiva laterale. Perché l’attenzione si sposta subito su un altro personaggio, l’angelo Camillo, il fratello gemello del regista, morto suicida nel ’68. Quella di Camillo è, probabilmente, la tragedia più grande della famiglia, ancor più della “follia” del primogenito Paolo, le cui urla e “bestemmie” hanno ossessionato tutti per anni. Ed è la tragedia di un ragazzo all’apparenza sorridente, disponibile, “positivo”, ma logorato nel profondo da un dolore inascoltato. Una sofferenza che cresce nel deserto affettivo di una famiglia in cui, nonostante l’apparente saldezza dei legami, nonostante il fervore religioso della madre, vige la regola della sopravvivenza. Ognun per sé. È lo stesso Bellocchio a confessarlo ai propri figli. E non esita ad ammettere le proprie colpe e responsabilità, nel non aver saputo capire, intuire il disagio profondo di un gemello incapace di trovare la propria strada autentica, oppresso dallo spettro del fallimento. Così come non si tirano indietro i fratelli Pier Giorgio e Alberto, che ritornano alle ragioni di quel suicidio, forse mai del tutto compreso e metabolizzato. Ed è come se, in qualche modo, qui, davanti alla macchina da presa, si provasse per la prima volta a razionalizzare. Il lato femminile della famiglia, le sorelle, la cognata Pia (moglie di un altro fratello scomparso, Tonino), sembra stare, invece, più sulla pietà, sul piano della partecipazione emotiva, più istintivamente affettivo. Ma comunque Bellocchio si confronta con tutti. Ritorna tra le strade e gli spettri mai domi di Bobbio, accoglie ricordi, ipotesi, rimorsi, rimpianti. Parla con Giovanna, la sorella di una vecchia fidanzata di Camillo. Parla con l’amico di sempre, Gianni Schicchi, con lo psichiatra Luigi Cancrini, che prova a gettar luce sui nodi irrisolti della personalità di Camillo, con il padre gesuita Virgilio Fantuzzi, che ragiona sul dolore della madre. Perché è lì che si concentra a un certo punto lo sguardo, su quel dramma di una madre incapace di accettare la disperazione del gesto, ossessionata dall’idea delle fiamme dell’inferno, preda di un delirio religioso quasi medioevale. (…) Sebbene la pace non sia ancora raggiunta, seppur l’inquietudine ancora attraversa le inquadrature, c’è tempo anche per un sorriso. C’è la sensazione di una solitudine non più invincibile, di una comunione riscoperta. Letizia, sul finire, dice di voler andare in paradiso, ma non per vedere Dio o i santi, per ritrovare la mamma, il papà, Camillo, i suoi cari. Saremo miliardi di miliardi, lassù. Chissà se sarà possibile. Ma c’è un tempo infinito davanti.